La notte era fredda a Ferrara, con neve a chiazze lungo l’autostrada e in città, ma lunedì, il quartetto Emerson e la musica erano bellissimi. I pensieri si aggiravano, discreti, nell’armonia, tra il qui ed ora e le storie intuite ed ascoltate. Pensavo a chi sarebbe piaciuto questo concerto, a chi insegue la leggerezza, alle sensazioni che qualcun altro avrebbe provato.
La musica fluisce tra le parole che leggo e sento, scivola sulle persone come abito che scende dall’alto, si indossa. Sono pensieri da serate senza sfarzo, con i ragazzi del conservatorio in jeans a ripetere sottovoce un attacco. Solo musica? Nel programma era presente un tema leggerino: quello della morte e su questo vorrei soffermarmi, magari della musica parlerò altrove. Nel quartetto n.14 di Schubert,”der tod und das mädchen”, c’è la visione del fascino che la morte esercita sulla fanciulla malata. Il dormirai dolcemente tra le mie braccia, insinua il lasciarsi prendere dall’oblio, come se la morte potesse sanare, rendere dolce la vita. E’ un sentimento che si avverte nei momenti di maggior crisi e stanchezza, una diversa forma di suicidio, che lascia uscire la vita da sè perchè ciò che questa offre non ha più speranza di interesse.
Ieri, sentivo Cacciari dire che la speranza non appartiene a chi non crede e questa affermazione categorica mi sembrava azzardata, come se l’agnostico potesse solo esorcizzare la disperazione e la morte e le allontanasse con impegni fasulli per lo spirito, puntando sul transitorio, sull’edonismo, sulla motivazione momentanea che ottunde la percezione della propria solitudine senza dio. Gli amori totalizzanti, le passioni, i furori: tutto inconsistente se non assistito da un fine più grande ed immanente. Un vanitas vanitatis che cade come seta dalla vita orgogliosa che lo rimira a terra. A questa immagine dolente contrapponevo quella a me più vicina, del cavaliere emaciato del Settimo sigillo, la sua battaglia impari contro la negazione della vita. Ricordate il gioco e la dignità del non lasciare che la morte vinca? Il vivere è un impegno e un contratto, magari da emendare spesso, ma comunque da onorare con sè stessi. Quando, per un motivo qualsiasi, questa cognizione del vivere viene a cadere, sembra subentrare un modo parallelo del concepire la quiete, l’assenza del soffrire. Capisco molto questo sentire, che non è il mio, lo capisco anche sapendo che non è una alternativa lasciar cadere vita e pensieri in un basta definitivo, senza più luce. La morte diventa in questi casi la droga finale, priva di speranza e di umanità. E’ la perdita dell’umano, il lasciarlo uscire da sè, contrapposto all’umanità del non cedere, del non arrendersi, del riprendere la corsa.
Se la musica, alla fine, si è ripresa il suo posto, è perchè, come sosteneva Goethe, disturba i pensieri, ma aggiungo, rimette in ordine il mondo con la sua umanità che spiega e non accondiscende.
“DER TOD UND DAS MADCHEN”
Forse uno dei lieder che amo di più,comunque il primo che ho conosciuto e continuo a far conoscere.Tra la Vita e la Morte ci sarà sempre una dissonanza perchè nel loro coesistere c’è la sfida estrema alla indecifrabilità del mondo.””L’universo è uno dei suoi nomi.Nessuno lo ha mai visto e nessun uomo può vedere” (Borges),rimarcando poi, in Evaristo Carriego(Juan murana)”Lo ricordava Carriego e io lo ricordo ora.E’ meglio pensare agli altri quando si avvicia l’ora”,per arrivare alla conclusione contraria e opposta”Non ti potrà salvare ciò che scrissero coloro che la tua paura implora; tu non sei gli altri”.Siamo quindi enigmi di uno stesso volto,calati in personaggi multipli che solo la Fede di un “senso” occulto da cercare nel nostro essere qui come nucleo centrale da difendere e consapevoli d’appartenere a un Tutto che ci ruota attorno e,di cui quella molecola d’essenza è preziosa nel suo pulsare di vita connessa ad altre molecole ugualmente preziose che pur nella brevità del loro ciclo naturale,hanno accettato con umiltà e responsabilità anche il “senso” della connessione con gli altri,gioiosi di scambio originale che non ha mai smesso il “gioco” pur facendolo sul”serio”.SFIDA CHE LA SPERANZA RACCOGLIE anche se spesso ci si può sentire isolati,incompresi,fuori dal coro politico e umano,ma dentro al sentire segreto del suo destino.Forse molto è “caso” se si vuole pensare con il calcolo della logica e molti anche gli errori. Ciononostante l’errore va affrontato nel suo aspetto ricorrente,ciclico,permanente.Solo così perderà i suoi connotati circoscritti,per acquistare un significato più importante,che può riguardarci talmente da vicino da trasformarci anche nella responsabilità di sangue buono,senza alibi consolatori ma con la certezza serena d’averci provato.
Chiedo perdono per la mia prolissità che forse hafatto perdere più e pù volte il filo.M’auguro che qualcosa di ciò che volevo esprimere sia restato,SPERANZA di cammino inclusa.
P.S.Splendido il quartetto Emerson.Grazie per avercelo riproposto.Buona giornata con il lied di Schubert”Il tiglio” Non rileggo e aggiungo altre scuse…Bianca 2007
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non lo so se chi crede riesce ad essere veramente consolato dalle umane disgrazie..sto pensando che a torino nel giro di tre giorni sono morti tre ragazzi..uno per un soffitto caduto, due di 14 anni si sono buttate dal balcone..penso a quelle madri : potrà consolarle il dio di cacciari?..oppure parlare di queste cose è un lusso che si possono permettere tutti quelli che di problemi veri, grandi, reali non ne hanno, e allora avanti con i massimi sistemi..che tanto tempo ce n’è.
buon giovedi …con un sorriso pieno di sole novembrino
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quando sono ad un concerto, spesso mi capita di sentirmi in una specie di bolla di vetro che vaga nell’universo, io e la musica dentro. i pensieri volano e l’immaginazione è fervida. inizio a costruire dei luoghi, dei personaggi, a volte anche i dialoghi e tutto il resto…
adesso, non essendo in una sala da concerto, ho solo potuto aumentare il volume e chiudere gli occhi. la prima immagine che mi è venuta in mente era di me stessa vestita con costumi dell’epoca, in un grande salone per le feste (anche quello in stile) che, di nascosto dal resto del palazzo, danzavo con leggiadria ed allegria sollevando il gonnone per non inciampare, con l’espressione un pò buffa ed impertinente di chi si diverte con poco e non si cura di ciò che potrebbero pensare gli altri.
per me la musica ha un enorme potere evocativo… e perdonami se non sono restata in tema.
grazie per questo piccolo dono.
s.
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E’ vero: questo post è un dono. Un dono fatto di invito ed induzione alla riflessione vera, quella costruttiva, che porta a certe anche scomode ammissioni. Quando la voglia di vivere viene meno, anche momentaneamente, a causa di delusioni o disillusioni, cedere al fascino del lasciarsi andare può sembrare la soluzione più semplice.
Cacciari ci condanna, quindi, ad un limbo senza fine. Ma provare a vivere per amore della vita stessa è così assurdo ed incomprensibile?
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Credo Tibi che ci sia molta più forza e coraggio in chi sa di non avere porte di sicurezza, nel cercare un senso e un luogo alla speranza. L’altra sera il teologo diceva che non c’è modo di riparare alle ferite dell’ingiustizia, della dignità vilipesa, credo anch’io che sia così, ma non accetto che sarà sempre così. Anche per chi crede sarebbe inaccettabile un dio che condanna al dolore e all’infelicità. Cacciari parlava dell’escaton, delle domande ultime, su cui il filosofo si ferma, ma anche su questo la vita pratica ha molto da ribattere. E non perchè sia un limbo, come sai, o priva di intelligenza speculativa. E’ un ragionamento che continua, non riesco ad essere sintetico e chiaro.
Ciao Ste, mi piace l’idea della danza finchè si ascolta musica, molto femminile, non sei fuori tema e se scegli vesti più leggere, voli.
Bianca, sulla musica e su Borges sono indifeso, come in tutte le mie passioni, ascolto, imparo, rifletto.
Minnie: ciò che accade non ci toglie la necessità di pensare alla vita, anzi è ancora più necessario. Ma tu questo lo sai bene quando scrivi : astenersi perditempo.
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esssssiiiii magozurlì..che i perditempo, perdigiorno,perdituasorella sono solo una gran rottura di palle. OH.
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Willy, mi sono riletta: la domanda finale era rivolta a me stessa, quasi a mo’ di provocazione.
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